‘Le intermittenze della morte’ di Saramago o l’umanità della morte

Cosa succederebbe se un giorno la morte smettesse di fare il suo lavoro?
È quello che accade nel Paese descritto da Saramago, ne ‘Le intermittenze della morte’ quando, allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre tutti gli uomini in fin di vita rimangono sospesi in una sorta di limbo. Immediatamente si scatena il caos: le agenzie di pompe funebri sono disperate, il clero vede sgretolarsi le sue fondamenta, i malati iniziano ad accumularsi lungo i corridoi degli ospedali. Per sette mesi gli uomini godono di una deroga alla loro costitutiva mortalità, fino a quando una lettera viola compare nell’ufficio del direttore generale della televisione. A scriverla è la morte stessa: a breve ricomincerà il suo lavoro, avvisando i malcapitati con una missiva, cosicché abbiano una settimana di tempo per poter lasciare i propri cari, sistemare il testamento, occuparsi delle questioni irrisolte e prender commiato dal mondo in maniera serena.

Solo in un caso l’epistola ritorna indietro, per ben tre volte, fino a quando la morte non decide di occuparsene personalmente. Se quella narrata finora è la vita in un mondo distopico, (seppur intriso di sapiente ironia), adesso in ballo vi è una nuova prospettiva: ad essere descritto è la sconfitta di un’entità che, per poteri, è speculare a Dio. Onnisciente ed infallibile, trattiene la sua forza per potersi avvicinare all’uomo, un violoncellista, ed osservarlo mentre dorme ignaro nel suo letto. La scelta di un co-protagonista che sia un musicista non è casuale: la sensibilità donatagli dall’arte è quella che regola la sua intera esistenza. Come un eroe romantico, trova in uno studio di Chopin ( https://youtu.be/6hc5FKmr3FA) la raffigurazione della sua stessa vita, in una musica che si consuma in meno di un minuto, ma che lascia l’impressione di aver vissuto qualcosa di effimero con la stessa intensità di un momento eterno, destinato a durare per sempre.

Davanti a delle pagine di Bach, lasciate scomposte vicino al violoncello, la morte non può che inginocchiarsi e piangere. La musica la riporta al suo stato primigenio e Saramago, con tono commisto di amarezza e ironia, commenta dicendo che essa non può che ripensare al fatto che non è viva, e che non lo sarà mai, “a meno che“. Quell’ “a meno che” posto quasi casualmente alla fine della frase diviene la chiave di volta del romanzo: esiste qualcosa che può invertire la rotta.
La musica diviene il ponte tra l’umanità e l’entità, non solo perchè la dipartita di un defunto è spesso accompagnata da bande, canti e marce funebri, ma perchè l’esistenza stessa è impregnata di musica. Pur non essendo umana la morte intuisce e comprende il contenuto di quegli spartiti, perchè è abituata “ad ascoltare i sospiri”. La scelta della suite è poi emblematica: è quella in re maggiore, “la tonalità della gioia”; è vita che si espande e che ferisce la morte, perchè le mostra la sua impotenza. ( https://youtu.be/FcpeY2sV9Bg )

Le intermittenze della morte è un gioco di specchi, in cui la stessa figura viene riflessa in maniera differente. In poco meno di duecento pagine, l’autore raccoglie le impressioni di una morte che spaventa, di una che viene attesa con ansia, e poi, ancora, una morte che è debole innanzi all’uomo perchè questi ha ciò che lei non possiede.
Anche l’uomo viene ritratto da più punti di vista, ora descritto nelle sue meschinità, nelle paure più recondite, in gesti di altruismo e in quelli di avidità, in momenti di coraggio e in quelli di ignara felicità.

La morte ha però un’opzione: assumere le sembianze mortali ed incontrare il violoncellista. Vuole portargli la famigerata lettera, ma qualcosa glielo impedisce: seduttrice, finisce per essere sedotta ella stessa. Quello che vuole è la vita vera, fatta di lacrime, carezze e baci. E per farlo rifiuta il suo compito, lei, così potente, preferisce la fragilità degli umani, e l’amore del musicista capace, col suo strumento, di dar corpo a ciò che voce non ha.

Fuori dal tempo, e perciò immortale, il romanzo ha il ritmo del battito cardiaco con l’alternarsi di sistole e diastole, preciso e cadenzato nel seguire l’evolversi della situazione e capace di accomunare i lettori. Saramago riesce nel suo intento, dando del tu al contempo alla morte e al lettore, ed instaurando un dialogo a due voci fatto di domande umane e sofferenti e di risposte prima fredde, poi sempre più dolorose. Del resto

” Signora morte (…) noialtri, gli umani, non possiamo far molto di più che fare la linguaccia al boia che ci taglierà la testa, sarà per questo che ho curiosità di sapere come ne verrà fuori (…) con quella storia della lettera che va e viene e del violocellista che non potrà morire a quarantanove anni perchè ormai ne ha compiuti cinquanta. La morte fece un gesto impaziente, scosse seccamente dalla spalla la mano fraterna che vi avevamo posto. (…) La morte è arrabbiata. È ora di fare la linguaccia“.

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